Da Vinitaly la posizione di Yuri Zambon (VCR): «Il vino italiano non ha bisogno di piani straordinari». «Gli strumenti per gestire e migliorare le produzioni ci sono: si favorisca, nella misura ocm di restyling dei vigneti, l’utilizzo di materiale di propagazione di alta qualità e i vitigni resistenti»
Dissonanze stridenti al Vinitaly. Davanti al record di presenze di operatori, espositori e winelover della 56° edizione della kermesse veronese sembrava inopportuno parlare di crisi di mercato del vino.
Il rischio di perdere biodiversità e di incidere sul paesaggio
Invece è proprio ciò che è capitato. Nel convegno di apertura del 14 aprile e nel talk show di confronto di filiera del 15 aprile ha tenuto infatti banco il tema di possibili aiuti nazionali all’espianto dei vigneti come misura (un po’ drastica) di riequilibrio del mercato. Un’ipotesi assistenziale che rischia di minare la reputazione imprenditoriale del comparto vitivinicolo, orgoglio nazionale per i record nell’export inanellati negli ultimi dieci anni.
Una proposta che a VCR, leader del vivaismo viticolo e unica realtà di questo comparto presente al Vinitaly, sembra quanto meno contraddittoria. «Il rischio strettamente connesso agli aiuti alle estirpazioni – mette in evidenza Yuri Zambon, direttore tecnico commerciale di VCR –, è quello di incentivare l’abbandono dei vigneti collinari e delle aree interne accelerando il fenomeno della “migrazione” della vite verso gli areali più produttivi di pianura».
«In questo modo non solo verrebbe vanificato l’obiettivo di contenimento delle produzioni, ma si rischierebbe di perdere per sempre il patrimonio di biodiversità, coesione sociale e difesa del territorio rappresentato dalla viticoltura eroica o comunque collinare, esasperando i problemi di tutela idrogeologica e paesaggistica del nostro Paese».
Anche perché, prima di incidere sul capitale rappresentato dai circa 670mila ettari vitati del Belpaese (un valore vicino al minimo storico), compromettendo la capacità di reagire a nuove opportunità di mercato, converrebbe percorrere strade alternative.
Dealcolazione, perché no?
In passato gli esuberi produttivi venivano infatti regolati con la misura della distillazione. E qualcosa di molto simile si potrebbe attivare anche oggi, senza peraltro pesare sulle tasche dei contribuenti europei.
La nouvelle vague dei vini dealcolati rappresenta infatti la più allettante frontiera per conciliare la nuova sensibilità salutistica dei mercati Nord Europei e la richiesta di novità dei consumatori della generazione Z. La domanda è in decisa crescita soprattutto nei mercati anglosassoni (Usa e Uk), ma i produttori vitivinicoli italiani sono costretti a costose triangolazioni internazionali per intercettare questo nuovo segmento di consumo.
Bruxelles ha infatti sdoganato la definizione di vino low o no alcohol con l’ultima Ocm, ma Roma ha scavato un’incomprensibile trincea confermando il divieto di far uscire dalle cantine produzioni inferiori agli 8° gradi alcolici, costringendo le nostre aziende a stringere accordi con realtà estere per dealcolare, in Paesi più sensibili e accoglienti, i vini ottenuti dalle nostre uve. Parte dell’incremento di vendite di vino sfuso registrato nell’ultimo anno prende questa destinazione.
Un’opzione che rende le produzioni nazionali meno competitive rispetto a quelle estere e che rischia di comprometterne il legame con le produzioni viticole dei nostri territori.
Un tavolo di filiera “zoppo”
Il Vinitaly è il tradizionale punto di incontro tra le esigenze dei produttori e la capacità di ascolto delle istituzioni e poteva rappresentare una svolta. Che invece non c’è stata.
«No ai vini dealcolati, sì all’estirpazione dei vigneti»: ha ribadito il Ministro Francesco Lollobrigida. «Ognuno è libero di dealcolare, basta non chiamarli vini», gli ha fatto eco il sottosegretario Patrizio Giacomo La Pietra.
Nel tavolo di filiera solo la presidente di Federvini, Micaela Pallini ha provato a sollevare qualche dubbio sul no alla dealcolazione, mentre Unione Italiana vini (Uiv) aveva già espresso nei giorni scorsi la sua avversione all’incentivazione degli estirpi. «Le misure del piano nazionale di sostegno – ha obiettato Uiv- sono dirette a rafforzare la competitività delle imprese del vino e a orientare le produzioni al mercato, non a incoraggiare l’abbandono della vigna e il prepensionamento dei viticoltori».
- Da sinistra: Mikaela Pallini di Federvini, il sottosegretario Patrizio Giacomo La Pietra, Luca Rigotti di Copa Cogeca, Tommaso Battista di Copagri
- Il ministro Francesco Lollobrigida apre la 56° edizione di Vinitaly
- Vinitaly 2024
- Il videowall e il frontale dello stand VCR a Vinitaly
- La gamma dell’offerta VCR al Vinitaly
La posizione di Copa Cogeca
Confagricoltura, Cia e Copagri sono apparse invece allineate sulla posizione espressa da Luca Rigotti, coordinatore del settore vitivinicolo di Alleanza delle Cooperative e presidente del Gruppo Vino del Copa-Cogeca (centrale comunitaria di rappresentanza delle associazioni agricole).
«La proposta che il Copa Cogeca presenterà alla Commissione – ha detto Rigotti – è quella di arrivare a incentivare l’estirpo, definitivo o temporaneo, ma unitamente a questo in tutte le zone interessate da queste misure ci sarà una sospensione della quota nazionale dell’1% di aumento delle superficie vitata». Una soluzione simile a quanto già deciso in Francia (ma con stanziamenti decisamente maggiori).
Gestire la produzione senza compromettere il vigneto
Al tavolo della filiera brillava l’assenza dell’importante anello del vivaismo viticolo. «Avremmo potuto portare – afferma Zambon,– il punto di vista originale di chi deve prevedere con anni di anticipo la possibile evoluzione dei mercati del vino». «E mettere in guardia sui rischi legati alla limitazione del potenziale produttivo in un’epoca di rese tendenzialmente compromesse dall’impatto dei cambiamenti climatici».
A Vinitaly Bmti, la Borsa merci telematica, ha ribadito ad esempio i forti aumenti dei prezzi delle uve da vino a causa della riduzione della produzione del 2023 causata dagli andamenti meteo e dagli attacchi delle patologie fungine.
«Non serve – conclude Zambon – alcun piano straordinario per il vino italiano. Gli strumenti per gestire la produzione ci sono e sono collegati alla misura di ristrutturazione dei vigneti dell’Ocm». «Tramite questa misura si può arrivare ad esempio a incentivare, dove serve, l’adozione dei cloni caratterizzati da maggiore qualità o delle varietà resistenti e quindi più sostenibili».
Lorenzo Tosi